Le persone più vecchie del nostro collettivo sono cresciute nella falsa convinzione che l’Italia non fosse un paese razzista.

Certamente l’Italia non era come il sud degli Stati Uniti che vedevamo nei film, non era come il Sudafrica dell’apartheid e di Mandela, non come la Gran Bretagna delle rivolte dei ghetti, non come la Francia delle colonie, dell’Algeria e delle banlieu.

Purtroppo, negli ultimi decenni abbiamo invece visto mutare l’atteggiamento dello stato italiano, dalla calorosa accoglienza ai rifugiati politici predicata nella costituzione antifascista, alla progressiva chiusura delle frontiere, dall’affondamento della Kater i Rades del 1997 fino al naufragio di Cutro del 2023, e al ritorno, subdolo, da un’altra epoca storica, di vero e proprio razzismo istituzionale.

Il razzismo istituzionale è quell’insieme di meccanismi che tendono a dividere forzatamente le persone in gruppi separati, su base etnica, religiosa o di censo.

Razzismo istituzionale è aver provato a far cessare le buone iniziative di integrazione, come la piccola accoglienza in case assistite a Riace, per sostituirle con i grossi centri “hub”, spesso ostaggio della malavita, istituti con il fine di “smaltire” rapidamente migliaia di persone e poi espellerle, in linea con la propaganda di governo.

Razzismo istituzionale è criminalizzare la protesta – persino non violenta – dei detenuti nei centri di permanenza per i rimpatri o nelle carceri. Reati o presunti tali prodotti dalla stessa istituzione di detenzione, amministrativa o carceraria. Da uno a quattro anni solo per aver partecipato a una protesta.

Razzismo istituzionale è immaginare leggi e procedure così contraddittorie da costringere le persone a ricorrere a stratagemmi per vedersi riconosciuti i diritti di base, salvo poi essere pubblicamente additati come “disonesti”.

Razzismo istituzionale è il famoso gioco tutto italiano per cui: per avere un permesso di soggiorno devi avere un lavoro, ma per avere un lavoro devi avere una residenza, ma per avere una residenza devi avere una casa con un contratto di affitto in regola, ma per avere un contratto di affitto in regola devi avere un permesso di soggiorno…

che spiega forse meglio di ogni altra cosa come un insieme di leggi può portare delle persone altrimenti correttissime a ritrovarsi – inevitabilmente – fuori dalla legge. 

Secondo una di queste leggi incivili, per poter richiedere la cittadinanza italiana bisogna prima essere stati in regola con i permessi di soggiorno (e quindi con il lavoro) per ben dieci anni di seguito senza interruzione: cosa ben difficile data la precarietà del mercato del lavoro che subiamo tutt*.

La nostra sicurezza è anche la sicurezza di tutti quei lavoratori e lavoratrici oneste della comunità internazionale che lavorano nelle nostre fabbriche, nei nostri orti e nei nostri mercati, ma anche nelle nostre aziende, università e ospedali.

Per tutto questo vi invitiamo a votare SI al referendum sulla cittadinanza dell’8 e 9 di giugno, che ha l’obiettivo di diminuire da dieci a cinque anni il periodo di residenza legale per poter richiedere la cittadinanza italiana, per sé e per i propri figli.

Non potrà certo risolvere tutti i problemi di convivenza, ma certamente dare la cittadinanza a ben due milioni e mezzo di persone – che se la sono sudata – sarebbe un bel passo in avanti.

Infine, ricordiamo che l’8 e il 9 di giugno si voteranno anche altri 4 referendum molto importanti, su diritti fondamentali delle lavoratrici e dei lavoratori: per diminuire la precarietà, aumentare le tutele legali e soprattutto la sicurezza sui luoghi di lavoro.

Andate a votare!